Through – Speriamo che il tempo non sia in ritardo | Works 

Through – Speriamo che il tempo non sia in ritardo | Works

Maggio 05, 2020 · Arte · 0 comments
Solo Exhibition @ Area35 Art Gallery
Milano, Maggio - Giugno 2019

Testo critico di Pasquale Barbella


Nell’epoca in cui si vede troppo, si vede tutto, si vede di più, Federico Garibaldi ha scelto la decostruzione della visione, il filtro estremo, un gioco come un altro per tentare lo sguardo attraverso l’artificio del nascondere. Lo fa citando esperienze che rimandano al divisionismo, al puntillismo, alla retinatura tipografica, ma si diverte a capovolgere la funzione di quelle tecniche: lì i reticoli di puntini operano per addizione, creando con i loro addensamenti una realtà riconoscibile, mentre Garibaldi scompone gli oggetti del suo apparente voyeurismo per non condividerli con nessuno, nemmeno con sé stesso.

Non è ciò che sta oltre la rete a interessarlo, è la rete stessa e il momento del through, dell’attraverso, della mediazione frammentaria e casuale che interrompe la continuità del paesaggio (percepito, in questo caso, attraverso i finestrini e le tendine di un autobus).

Si indovina appena, al di là di questo effetto zanzariera, che si tratta di paesaggio urbano, o meglio della sua versione più illusoria, quel continuum mobile che sfiora lo sguardo del passeggero senza pretendere null’altro che una vaga simulazione di ipnosi. Stordimento: ma non troppo.

C’è un messaggio in tutto questo? Certo che no: Dio ce ne scampi. Garibaldi si fida più dell’ironia che dei messaggi. D’altra parte, checché se ne pensi, l’ironia è molto più rivelatrice dei messaggi. I messaggi sono sempre ingombrati da un surplus di retorica (dunque di inganno): oggi più che mai, grazie al trionfo ipertrofico della chiacchiera post-politica e twitterosa, dell’iperconnessione e dell’informazione extrafake. L’attraverso di Garibaldi, disconnettendo l’occhio dalla sua preda, compie a suo modo un’opera di igiene, immobilizzando la curiosità su una soglia troppo spesso profanata senza che l’atto di varcarla produca significativi progressi evolutivi nella nostra specie di appartenenza.


Federico Garibaldi, fotografare la città. Un’avventura visiva a Milano

di Erica Tamborini 

Insuperabile Eduard Weston quando fotografa il suo Messico e la sua musa ispiratrice, Tina Modotti. Una fotografia di lei indimenticabile: nuda, esposta al sole, mentre è divorata dal solleone messicano che, investendola in pieno, la costringe a una resa incondizionata, all’abbandono totale all’implacabile erotismo del calore travolgente che la illumina e le succhia l’ultimo respiro. Mentre suscita in Weston, nel fotografo, inaspettatamente, una fragilità palpabile e un po’ fuori posto, un timore e un dolore sordo appena percepibili attraverso il respiro sospeso di lei. Invidio Tina e vorrei talvolta potermi sostituire a lei proprio per questo scatto fotografico, questa possibilità vissuta, questo essere immortalata in una fotografia-ritratto che è documento crudo di timbro epico, e al tempo stesso metafora estraniante, irreale e persino surreale. Trattasi di un testo visivo autenticamente vero, sfrontato e, parimenti, immagine metaforica inafferrabile, come un sogno. Egualmente: un’avventura dello sguardo che assume un vedere inaspettato, profondo, e magico.

Questo è riscontrabile pure, a mio parere, negli scatti fotografici di Federico Garibaldi, fotografo, classe 1968. Pertanto, nel presentare le fotografie urbane di questo autore, questi ritratti di vita di città in frammenti fotografici poetici e prosodici, tratterò le sue fotografie come fossero sguardi indiscreti e rivelatori. Sguardi westoniani, richiamanti la sfrontatezza e la fragilità, la razionalità critica e l'afflato neoromantico che emana dal corpo nudo di Tina, esposto senza censure dallo scatto di Eduard Weston. Sguardi fotografici di Federico Garibaldi che si spingono ancora oltre, oltre ogni vedere conosciuto. Le fotografie di città di Federico Garibaldi esposte presso la Galleria Area35 di Milano sono, nei loro particolarissimi termini, varchi aperti su un altro vedere. Queste singolarissime fotografie di città, realizzate nella metropoli di Milano dove oggi l’autore vive, costituiscono, a mio avviso, una rivelazione autobiografica: una registrazione visiva del come questo fotografo vive la “sua” Milano subendone la tirannia, godendone il dominio mentre è intento ad attraversarla nel modo più banale possibile, nei termini mondani condivisi dai più, ma con una curiosità rara, ribelle, fors'anche anarchica. Egli finisce poi per declinare poeticamente questo suo vissuto facendone l’oggetto di questi documenti visivi che educano ad un inatteso vedere. Nel loro modo di essere queste fotografie mostrano una quotidianità comune a tutti e, sincronicamente, una quotidianità non comune e anzi inaspettata. Esse rispecchiano all’unisono ciò che si vive giorno per giorno, per lo più inconsapevolmente, e ciò che si desidera, altrettanto inconsapevolmente, attraversando la metropoli; quello che in cuor nostro, senza neppure confessarcelo, si desidera e si sogna ogni momento, sottraendoci a ogni ottusità e a tutte le banalità quotidiane. Vivendo la città, Milano, e quello che rappresenta in essa la vita moderna, la contemporaneità con i suoi miti e i suoi ritmi, come un’avventurosa esperienza visiva che dà un sapore inaspettato ai suoi stessi spostamenti urbani su mezzi qualunque, Federico Garibaldi compie una trasfigurazione immaginifica. È così che la fotografia di città consacrata da questo autore ai suoi pellegrinaggi metropolitani, finisce per farsi evento percettivo.

Questa serie di scatti, apparentemente occasionali, decisamente avversi a ogni retorica, a ogni falsa esaltazione dei molti nulla che ci assediano nella città, per via del filtro visivo attraverso cui sono catturati – operando dietro il vetro del mezzo di trasporto urbano su cui Federico si sposta – promuovono una visione inedita. Essi consentono alla realtà catturata dall’immagine fotografica di assumere una nuova identità, facendosi presenza inattesa emergente attraverso una griglia geometrica, un filtro solare. Il filtro fisicamente presente, costituito dalla griglia parasole che gli autobus milanesi hanno sui vetri. L’autore riesce a suscitare così un evento estetico, un fatto artistico e un accadimento conoscitivo che penetra nella realtà rivelandola nel mentre, attiva una fuga fantasmatica oltre i confini della realtà.

Che cosa si prova di fronte alle fotografie di Federico Garibaldi? Fotografie che esulano dalla sua professione di fotografo di moda per rivelare un fotografo-artista. Fotografie inusuali. Curiosità, stupore, che cosa? Personalmente ho provato un interesse e una volontà di verifica, autobiografica, e un brivido, un inaspettato stupore nietzscheiano. Stupore dovuto alla loro unicità e al singolarissimo diario per immagini restituente una parte della sua giornata che Federico Garibaldi ci ha voluto presentare; un diario dedicato a uno scarto, una periferia, una fuga dalla città monumentale e dalla dimensione professionale, in cui, peraltro, Federico Garibaldi ha avuto ed ha tuttora i suoi gratificanti attestati. Ebbene, credo che la mia curiosità sia un po’ la curiosità di tutti: che cosa dicono e lasciano vedere di insolito o eccezionale queste fotografie? Mostrano una città mai veduta e al tempo stesso una città conosciuta, nel mentre mostrano pure il filtro del medium fotografico che è sempre un’astrazione, una fuga dalla realtà. Mostrano un’indiscutibile magia, e un provocatorio allerta. Ma a noi spettatori, che cosa accade una volta che si è di fronte a queste immagini? Credo si possa dire con Michel Foucault, che scrive di Edouard Manet: ogni immagine “non è altro se non l’esplosione dell’invisibilità stessa”[1]. Ogni immagine è denuncia e scoperta di qualcosa di estraneo, d’inafferrabile di fronte a cui viviamo la scoperta visiva, anzi inedita, di questo microcosmo urbano, di questa Milano inesplicabile e al tempo stesso familiare consumata fino all’intimità sua, in cui finisce per rispecchiarsi la nostra stessa intimità.

Incalza un secondo problema di fronte a queste fotografie: come rendere in arte, per immagini, gli aspetti prosaici della contemporaneità realizzando così delle belle immagini? Ma cos’è bello? Già Diderot, nell’Encyclopédie, si domandava: “come mai molti sanno dire dov’è [il bello] e solo pochi sanno dire che cosa è?”[2]. L’occhio avrebbe forse delle prerogative tali per cui è incline alla bellezza e la va cercando costantemente? Purché si sfugga alla realtà apparente, o no? Georges Bataille, anch’egli nello scrivere di Manet, precisamente di Olympia, avverte: “come la poesia moderna, [Olympia] è la negazione di questo mondo […] e delle convenzioni monumentali che si riferiscono all’antica realtà della Città”[3]. Potremmo arrivare a dire, allora, con Bataille, che in queste fotografie di Federico Garibaldi, tutto scivola nell’indifferenza della bellezza. Per poi aggiungere: e del suo opposto, la bruttezza. Queste due polarità sono compresenti, trasfigurate ed esaltate in metafore negli scatti di Federico Garibaldi. Sono scatti al contempo estranei e trattenuti, con la luce, al di là della griglia e del vetro che si assumono il compito di far sentire e rendere visibile il medium fotografico grazie al quale un mondo prende forma, un mondo inafferrabile appartenente a un universo parallelo. Un mondo della percezione in cui le “rappresentazioni” della realtà esterna finiscono per determinare un’identità immaginativa, un mondo che domanda d’essere scoperto ed esplorato.

In altre parole, si ha infine la possibilità di assumere con inaspettata padronanza un’immagine fotografica che ci restituisce un'emozione visiva che corrisponde pure a una curiosità cognitiva. Da qui l’incanto, il fascino attrattivo di queste immagini. Fotografie belle, inquietanti, inaspettate e dunque sorprendenti. Fotografie che sono vere e proprie sfide visive, emotive, percettive: accadimenti che si fanno eventi visivi veicolati da un fare arte, l’arte fotografica di Federico Garibaldi. 

 


[1] Michel Foucault, La pittura di Manet, trad. it. S. Paolini, Abscondita, Milano 2005, p. 63.

[2] Quanto segue fa liberamente riferimento a Jean-Pierre Changeux, La beautè dans le cerveau, Odile Jacob, Paris 2016, in cui è citato Diderot. Ed. cons. Neuroscienze della bellezza, trad. it. F. Ortu, Carocci editore, Roma 2018, p. 163.

[3] Geroge Bataille, Manet, trad. it. G. Alberti, Abscondita, Milano 2013, p. 57


SEGUENDO (FEDERICO) GARIBALDI

di Matteo Ceschi (tellingwithmyeyes.wordpress.com)

Ho la fortuna di essere amico e collega di Federico. E come se ciò non bastasse mi sono concesso il piacere di assistere alla nascita e alla crescita del progetto Through.

Ad accompagnare Federico nelle sue avventure fotografiche/cinematografiche ormai, lo confesso, ho preso un certo gusto: sono, infatti, alcuni anni che le nostre carriere di fotografi si incrociano sui set e nelle più singolari location. Lui fotografa su richiesta del committente ed io – sempre assecondando la volontà del datore di lavoro di turno – documento il suo lavoro in un bianco e nero d’ordinanza. Il mio ruolo rimane quello di un libero battitore capace all’occorrenza di scomparire per meglio cogliere ogni singolo gesto sul set.

E di gesti carichi di piccoli ma importanti significati la serie di foto che compongono Through ne è piena. 

Per un certo periodo il nostro passe-partout è stato un semplice biglietto della metropolitana. Armati ciascuno delle propria macchina e con in testa ognuno la sua missione abbiamo viaggiato sulle più trafficate linee di superficie della città. Da un tram all’altro. Da un capolinea all’altro.

Fin dall’inizio, osservando Federico in azione ho avuto l’impressione che la volontà di interporre tra sé e il mondo circostante un filtro – il finestrino del mezzo di trasporto con i suoi caratteristici black dots – caricasse lo scatto di una  responsabilità sociale. In una contemporaneità che via via sta perdendo la capacità di visione periferica, il fotografo esaspera il senso di isolamento sfocando volutamente attraverso un semplice artifizio immagini e significati ad esse connessi. I frames di Through obbligano l’osservatore a riappropriarsi di questa skill atrofizzata – la visione periferica – e a compiere un sforzo in una direzione totalmente opposta a quella imposta dai social. Ed è proprio attraverso il filtro dei black dots, elemento di disturbo reale nella cronologia del viaggio e nemesi perfetta dei like irreali, che dobbiamo sforzarci di (intra)vedere innanzitutto noi e gli altri.

Questo inatteso processo di “riscoperta” tramite la fotografia ha avuto effetto immediato nel momento stesso in cui Federico eseguiva gli scatti. Tutto intorno a lui sul mezzo pubblico, la gente come per magia riacquistava quella parte di visione che avrei dato per compromessa. Quell’individuo dal singolare modo di vestire – lo definirei, per comodità, steam punk  – intento a fotografare chissà cosa appiccicato al vetro del finestrino possedeva qualcosa di più magnetico degli schermi degli amati devices. Era così fortemente singolare da vincere gli ultimi e luminosi ritrovati tecnologici. Qualche adolescente, abbandonata la “modalità like” per quella “macchina fotografica”, addirittura si spingeva timidamente in atti di emulazione – con quale risultato, mi piacerebbe davvero saperlo. 

Through. Speriamo che il tempo non sia in ritardo, suona quindi come un invito che va in una direzione paradossalmente opposta al suo stesso sottotitolo. La speranza, nel nostro caso, è che il tempo un po’ di ritardo si accumuli, tanto da permetterci di scrutare più a lungo attraverso la magia dei black dots. Forse la visione periferica e con essa quella dell’altro non è del tutto andata persa. Grazie, Federico.