Fotografare L’anima

Maggio 20, 2020 · Press · 0 comments
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Cultus Magazine, Numero 3 2015
Di Chiara Dal Magro

Ci sono immagini che si potrebbero guardare per ore, senza stancarsi, fantasticando senza limiti su luoghi, paesaggi, situazioni, personaggi, accessori, opere d’arte e molto altro ancora. La formula giusta per creare quell’alchimia speciale tra immagine e spettatore comprende però molti elementi, come la passione, l’emozione e la visione che l’artista deve essere in grado di trasferire in uno scatto che racchiuda tutto il suo “background” professionale e di vita. Il “background” di Federico Garibaldi è molto accattivante, un po’ come lui e come le sue fotografie, che si tratti di moda, di reportage o di foto astratte.

Nato a Chiavari nel 1968, durante gli studi di Giurisprudenza a Pisa scopre la sua vera natura, riconoscendo un bisogno urgente di dover indagare le diverse umanità e le molte contraddizioni che popolano la storia e la geografia dell’uomo e rendendo così impellente il proprio desiderio di dover rappresentare tutto questo. Dopo un inizio di carriera come Art Director, durante il quale presta la propria consulenza per svariati brand importanti, decide, in un secondo tempo, di scegliere la fotografia, per rendere più esplicite le sue emozioni e dare un’immagine concreta ai suoi pensieri.

Il talento, la particolare visione dell’immagine e la padronanza delle tecniche fotografiche lo portano in breve tempo a viaggiare in tutto il mondo per realizzare servizi fotografici per le testate più prestigiose della moda, come Vogue Italia, Vogue Russia, Muse Magazine, Schon! Mag, L’autre Magazine e molte altre. Il prestigio però non può bastare alla sua natura curiosa di tutto e, mischiare il reportage “neoclassico” (quello del bianco e nero, reso famoso dal cinema e dalla grande fotografia del 900) con l’astrattismo, che affida alla forza delle immagini la necessità di raccontare un’emozione, diventa un modo divertente e irrinunciabile di indagare e rappresentare temi molto più intimi. I risultati non si fanno attendere. Le sue opere vengono esposte al Palazzo Ducale di Genova, ottiene un incarico importante per il governo malesiano ed espone i suoi lavori alla Triennale di Milano, allo spazio Grifoni e alla Galleria Statuto 13.

Approfondiamo in quest’intervista la sua conoscenza.

 

 

Federico com’è nata la tua passione per l’arte? Quando questa è diventata fotografia?

Quando si nasce si è sempre inconsapevoli e così è stato anche per gli interessi della mia vita. Percepisco con forza la curiosità, la passione arriva dopo. Nello specifico, ho sempre pensato all’arte come alla cosa più talentuosa di me e ho sempre pensato alla vita come una storia molto bella da raccontare. Le parole e le immagini sono strumenti assai forti per esprimere il proprio punto di vista, io cerco di usarli entrambi, con indipendenza di pensiero.

 

Quando hai deciso che la fotografia sarebbe diventata la tua professione?

Non l’ho mai fatto, razionalmente in quanto, a volte, la nostra vita decide per noi. Questa scelta mi piaceva e non ho fatto niente per ostacolarla anzi, l’ho assecondata con gioia.

 

I tuoi genitori ti hanno sostenuto nella tua scelta o speravano facessi altro?

Alle medie vinsi una medaglia d’oro del Rotary, che mi premiava come miglior studente della mia Regione. Mia madre scrisse una lettera di protesta, teorizzando che se io fossi stato realmente il migliore, lei avrebbe nutrito perplessità forti sul secondo ed enormi su tutti gli altri. Sono stato educato all’ironia verso tutto, soprattutto verso me stesso, con un minimo di rigore nella ricerca della qualità, ma con enorme libertà nello scegliere le materie del mio indagare. Un’educazione inglese in dialetto genovese. Immagino, comunque, di non aver del tutto disatteso le loro aspettative: sono un incoerente di alta qualità.

 

Che tipo di fotografo ti consideri?

La domanda presuppone che io mi consideri un fotografo. In realtà penso a me come una persona che ha un proprio punto di vista e lo offre prima di tutto a se stesso.

 

Cosa vuoi esprimere attraverso il tuo lavoro? Cosa ti stimola a dare il meglio?

La realtà ti capita davanti agli occhi e poi è già passata. Nessuno mai la vede allo stesso modo due volte. Io vorrei raccontare questo labile momento di passaggio. E’ un punto di vista, mezzo metro più a destra è già tutto diverso. Ho grande rispetto del non capire, il senso del mio pensiero è nella ricerca, non nella soluzione. Anzi, se posso rubare le parole di chi l’ha detto meglio, Mario Giacomelli, forse “non voglio farmi capire per esser meglio capito”.

 

Qual è il genere di foto che ti appassiona di più? Quale il linguaggio fotografico che più ti rappresenta?

Nel 2015 educhiamo i nostri figli a parlare tante lingue. E’ un’esigenza della comunicazione globale ed io ho cercato di adeguarmi. Uso la fotografia analogica così come quella digitale. Uso il video, quando posso, perché è per definizione narrativo. Quando fotografo per mio mero divertimento, mi preoccupo degli occhi miei e di quelli di chi guarda, raccontando senza secondi fini. Quando invece c’è una commissione da parte di un cliente, un fine indubbiamente esiste ed è quello di soddisfarla. La fotografia che risponde a una commissione prevede un progetto e uno sforzo di coerenza. Per onestà intellettuale, devo aggiungere che io cerco di soddisfare il cliente, ma è forte l’esigenza di soddisfare anche me stesso.

 

 Qual è stato il servizio fotografico che ti ha regalato maggiori soddisfazioni? Quale invece quello che non rifaresti più? Il più divertente?

Scartabellando nella mente fra le foto che ho fatto, vivo mille emozioni più una ma è anche vero che scegliere fra i sentimenti è da sempre un’attività che mi genera molta angoscia. Per questo motivo non lo farò e, onestamente, spero ci siano più foto davanti a me piuttosto che alle mie spalle. Mi piace immaginare che le maggiori soddisfazioni arriveranno domani.

 

 Quali sono i collaboratori più preziosi per la perfetta riuscita di un servizio fotografico?

Ho tanti amici e non vorrei perderli con questa risposta. Diciamo che la domanda presuppone un distinguo fra la fotografia di moda e quella di ricerca. Come ho accennato prima, la moda presuppone una progettualità e quindi anche un’equipe di persone. Indagare all’interno dei ruoli non è oggettivamente simpatico, la necessità vera è che siano bravi, tutti, e molto. Quando si rubano immagini passeggiando nel mondo invece, i collaboratori più preziosi sono le cose che accadono, le persone che vivono e gli occhi che guardano.

 

 Esiste un’immagine che avresti voluto essere tu a scattare al posto di un tuo collega?

No, in quanto non sarebbe, appunto, la stessa immagine. Sarei stato probabilmente mezzo metro più a destra.

 

 La modella dei sogni con cui non hai mai lavorato e che vorresti davanti al tuo obiettivo? Quella indimenticabile con cui hai lavorato?

Io nutro una vera ossessione per la gente comune. Ho la fortuna di lavorare con moltissime modelle di alto livello e con molte altre vorrei farlo. La mia curiosità però va sempre alla persona, raramente alla professionista. Milan Kundera scrive che molte sono le persone, pochi i gesti. Io amo ritrovare i gesti comuni in persone particolari.

 

 Ci fai dei nomi?

Mi sono divertito molto a lavorare con Soo Joo Park, top model coreana di enorme classe e grande autoironia. Ho amato ritrarre una signora pugliese che chiacchierava con un’amica nel cortile di casa sua, in un afosissimo pomeriggio di agosto, nelle campagne vicino a Lecce. Mi sono commosso sinceramente quando, uscendo da un tempio buddista nell’isola di Malacca, in Malesia, un mendicante cieco mi ha guardato fisso negli occhi (solo lui sa come abbia fatto) e mi ha detto: “se volessi farmi un ritratto io ne sarei felice”. Le persone normali che non ho mai raccontato sono ovviamente tantissime ma forse Kate Moss, Fei Fei Sun e Uma Thurmann sono più normali di altre. Un ultimo nome lo dedico a un artista che mi affascina infinitamente. Mi piacerebbe fotografare David Garrett e mi piacerebbe fotografare il suono del suo violino. Non sono un esperto di musica ma mi affascina quella capacità di interpretarla senza limitazioni temporali, unendo il patrimonio classico a quello contemporaneo. Quando l’ascolto, non ascolto un’epoca o un ritmo, ascolto soltanto musica.

 

 Quali sono le emozioni al termine di un servizio fotografico condiviso con altri professionisti? Cosa rimane?

Rimane certamente la voglia di andare a cena, molta riconoscenza e molta stima verso tutti, a meno che qualcuno non mi abbia fatto arrabbiare “assai assai”. Verso me stesso rimane la certezza assoluta che avrei potuto farlo meglio. Spesso, molto meglio. Poi, nei giorni successivi, guardo e riguardo le immagini e, lentamente, mi rivaluto. A volte arrivo anche a provare una velata soddisfazione.

 

 Attualmente quali sono i tuoi progetti?

Il più imminente è dire qualcosa di apparentemente intelligente nel corso di questa intervista. Gli altri sono molti, i progetti sono sempre molti e meravigliosi. A settembre esibirò una serie di foto di moda cui tengo particolarmente. Sono ritratti che hanno per protagonista Soo Joo Park, che indossa i pezzi iconici di Lucio Costa, grande stilista italiano recentemente scomparso. E’ un progetto che sintetizza in se concetti di moda e di arte. Gli scatti sono stati pensati per un libro e, in quest’occasione, saranno esibiti e battuti ad un’asta di beneficenza il cui ricavato sarà destinato a un ospedale che cura i bambini malati di tumore. E’ un progetto che mi ha coinvolto molto, perché ha contenuti qualitativi elevati e, soprattutto, per l’infinita amicizia che mi legava a Lucio.

 

 I tuoi progetti futuri?

Anche questi sono molti. Le storie da raccontare sono potenzialmente infinite. Presto, ma non so ancora quando, presenterò la mia nuova mostra personale. Sarà un progetto intimo e, spero, in qualche misura anche nuovo. L’idea è dare una forma narrativa all’opera astratta. Come riuscire a farlo mi è chiaro ma preferisco farlo vedere piuttosto che spiegarlo a parole. Un’ulteriore tentazione sarà un viaggio molto lungo e in qualche modo molto essenziale, per poter raccontare mille volti sconosciuti. Ho amato due viaggi fatti nel recente passato: un inverno in Siberia e un’estate in Malesia. Quel grande freddo e quel grande caldo hanno lasciato dentro di me emozioni sincere, insieme al ricordo dei luoghi, spesso estremi e meravigliosi. Quello che non riesco ad allontanare da me è il ricordo delle facce, tutte quei visi diversi, intelligenti, forti, espressivi, che ti parlano, ti sorridono, ti guardano e ti evitano.Ecco, io tutte quelle facce o mille altre facce vorrei rivederle, ancora e ancora. Con l’Istituto del Turismo Malese esiste un progetto espositivo. Anche se, ovviamente, prima di far vedere è necessario fare.

 

 Esiste ancora un sogno nel cassetto da realizzare?

Non disdegnerei una mostra personale al MOMA di New York. Ed anche un viaggio nello spazio non sarebbe male.