Due birre sui Navigli

Maggio 20, 2020 · Press · 0 comments
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Rendez-Vous De La Mode, Gennaio 2017

Di Pasquale Barbella

Milano, pomeriggio inoltrato, né caldo né freddo. Usciamo da un covo sui Navigli con due birre in mano. Menabrea. Federico Garibaldi è nero dal collo ai piedi (la testa è indecisa fra il bianco e la cenere): pantaloni a cavallo basso, maglia di cotone lavato con cernierona laterale e maniche alla zuava, stivali alti con due cerniere vistose e asimmetriche. Non mi va di usare il minirecorder, sa di terzo grado. Preferisco riportare a memoria le risposte degli interrogati. Lo so che è rischioso, ma tanto il rischio è più loro che mio. Propongo di camminare fino alla Darsena: coi gomiti sul parapetto si cazzeggia meglio.

Dovrei essere arrabbiato con te. Hai steso un velo di horror sugli arenili pugliesi della mia adolescenza. Come ti è venuto in mente?

Non è horror, è paradosso. E comunque stravedo per le tue spiagge: con la scusa di quella serie (blueShores, ndr) ci sono tornato in vacanza cinque estati di seguito. Ho un debole per i paradossi visivi. A volte tolgo l’audio al televisore, prendo una birra dal frigo e lascio scorrere le immagini ascoltando qualcos’altro. La realtà rimane identica a sé stessa, ma il suo senso cambia drasticamente. In spiaggia ho fatto qualcosa di simile: ho azzerato idealmente l’audio per concentrarmi sugli atteggiamenti e i gesti dei bagnanti. In Puglia, la fisicità balneare mi sembra diversa che in Liguria, dove sono nato e cresciuto. È più disinvolta, esibita come una sfida. Uno show non meno survoltato delle mie fantasie.

Sì, ora che mi ci fai pensare c’è qualcosa di vagamente teatrale nel body language dei pugliesi. Su una spiaggia estiva lo si nota di più, perché sei fuori dai tuoi panni consueti e devi surrogare col corpo i messaggi dell’abbigliamento. La vita di spiaggia è surrealismo puro. Però quando hai fotografato i panettieri di Altamura hai scelto uno stile decisamente realistico. Cosa ti ha spinto, in quel caso, verso un linguaggio così diverso dal tuo?

Quel lavoro aveva presupposti diversi. Intanto era una commissione e non una mia riflessione sull’assurdità del reale. E, come per tutte le commissioni, accettandola avevo deciso di giocare con regole non mie. Poi, in quel caso, mi piaceva confrontarmi con lo stereotipo. L’operazione era ibrida – forse anche un po’ sbagliata – ma proprio per questo è stata molto divertente. È stato come adattare il tuo punto di vista a uno sguardo che non ti appartiene.

Anche se ti ho visto fare esperimenti di ogni genere, la prima cosa che si pensa di te è che sei uno specialista della moda. Mi sono sempre chiesto se attraverso le immagini di moda si possa trasmettere anche qualcosa di diverso dalla moda. Illuminami, sono un interlocutore trasandato e inelegante.

A parte il fatto che menti sapendo di mentire, io non mi ritengo un vero specialista della moda. È un mondo che spesso mi ospita con indulgenza, a volte con simpatia, ma non ci apparteniamo a vicenda. La moda ha una sua grammatica specifica, suggestiva al massimo grado. E ti chiede di raccontare delle storie, cosa che per un fotografo è sempre un invito a nozze. Ti sfida a esprimere un pensiero, ma devi rispettare le sue regole. La tua domanda racchiude in sé il presupposto stesso del mio lavoro nella moda. Più che i suoi contenuti mi eccitano le sue contaminazioni. Mi piace parlare dello stato d’animo di chi indossa una maschera, più che la maschera stessa. In una ragazza di vent’anni non vedo la super model, ma le cose che le passano per la testa. Mi affascina il backstage della vita, più che la sua passerella.

Lo so che sei un creatore di immagini, ma fa’ finta di essere un sociologo, così ci divertiamo. Per me la differenza più evidente tra la pubblicità della moda e quella degli altri settori è che nella seconda si sorride e si ride senza un perché, meglio se con esagerata ebetudine, mentre nella moda i personaggi tendono a essere serissimi, talvolta scontrosi. La moda non dovrebbe procurare felicità?

È un mistero. Ho spesso l’impressione che l’arte della moda viva sé stessa come una sorta di monade senza finestre, un pianeta a parte. E questo è strano, perché ciò che indossi dovrebbe concepirsi, per definizione, come un’interfaccia fra te e il mondo che ti circonda. Eppure è ferocemente autoreferenziale. La moda è diffidente: sospetta che l’ironia non le si addica, anche se non mancano eccezioni, talune clamorose. In generale, il pensiero che la governa non ama mettere in discussione i propri canoni espressivi. Ora però fammi aggiungere che l’euforia dilagante nel resto della pubblicità è persino più bizzarra. La domanda che mi viene più frequente e spontanea è: «Ma che cazzo c’è da ridere, amico?»

Cambiamo area. Il reportage. L’edizione 2015 del World Press Photo, la massima rassegna internazionale dedicata al fotogiornalismo, è stata al centro di animose polemiche per l’elevata presenza di servizi ritoccati e manipolati, molti dei quali sono stati squalificati. Entro quali limiti, secondo te, è lecito alterare immagini destinate all’informazione?

La premessa – soggettiva – è che solo un dio, cattolico o kafkiano che sia, sa vedere il mondo così com’è. La mente umana è destinata a interpretare, sempre. Anche quando non vuole. Eppure c’è un dubbio che mi frulla in testa: un punto di vista cambia la realtà o semplicemente la indaga? La foto che ritrae Kim Phúc – «the napalm girl» – la offre alla storia dell’umanità. Racconta la cattiveria di chi ha bombardato, il dolore delle vittime, la solidarietà di chi ha soccorso. Poi scopri che chi ha bombardato e chi ha subito e sofferto quelle bombe erano lo stesso esercito. Quella foto non giudica. Descrive. Eppure, descrivendo, formula uno dei più efficaci atti d’accusa di sempre sull’assurdità della guerra.[1] Quando ebbi l’occasione di chiacchierare di questo argomento con un grandissimo fotografo, Ferdinando Scianna, gli dissi che a me sarebbe mancato il coraggio di fare quella foto. Forse avrei messo la macchina da parte e cercato di dare una mano. Mi rispose che una volta che sei lì, il vero obbligo morale che hai è quello di scattare la foto, e farla talmente bella e forte da poter esprimere con la massima intensità il senso della denuncia. Da un punto di vista personale credo che la fotografia esista per interpretare la realtà, non per descriverla. Tuttavia, un conto è aiutare le cromie di una foto con lo sviluppo o con il ritocco, diverso è creare una situazione che non esisterebbe senza il nostro intervento e raccontare poi che quella è la realtà. Questo a mio avviso non è fotogiornalismo.

A proposito di fotogiornalismo, che cosa intendi per “reportage neoclassico”? Ho trovato questa frase nel tuo sito.

Non lo so. Non l’ho scritta io. Se penso al neoclassicismo mi viene in mente la dissertazione di Friedrich Hauser sulla scultura neo-attica.[2] Lui proponeva il neo-attico come alternativa alle stravaganze barocche dell’arte ellenistica. Anch’io sono spesso adescato da tentazioni barocche. I fronzoli sanno essere seducenti, quando ci si mettono. Alla fine però sento sempre la necessità di depurare, arrivare all’essenza, per sfuggire alla trappola dell’autocompiacimento più superficiale. Questo sforzo di isolare l’essenza delle cose – della natura, forse dell’arte – mi fa pensare a un altro grande teorico del neoclassicismo, Winckelmann. Il pensiero indipendente sta nella copia, non nell’imitazione. Copiando la realtà, l’uomo ne fornisce un’interpretazione; e se prova a copiare gli antichi, scopre che sta accarezzando l’essenza del futuro.

Ho visto che all’Expo hai partecipato, con altri tre fotografi, a una dimostrazione creativa promossa dalla Sony per il lancio della sua A7R II. Hai ripreso moltitudini e individui immersi in un biancore abbagliante. Che volevi dire?

Volevo dire che il mondo, nonostante tutto, è profondamente bianco. Ingenuo e misterioso. E volevo aggiungere che l’uomo, nell’infinito di quel bianco, si smarrisce. Si isola. Si confonde. E finisce col sentirsi assolutamente solo. È diventata famosa la frase di Diane Arbus, quando ha detto che «una fotografia è il segreto su un segreto. Più ti dice e meno sai.»[3] Ogni uomo porta con sé mille segreti. E l’implacabile scorrere della metropoli li fa incrociare in ogni strada. Ma loro, ignari, nemmeno si salutano.

Mi è capitato di vedere qualcuno dei tuoi video. Ce ne vuoi parlare?

Amo raccontare storie. I video me ne danno l’opportunità. Non ho ad oggi alcuna pretesa di fare cinema. Preferisco fondere le immagini e i suoni, come se l’operazione avesse un senso di qualche tipo. In verità a me pare che i video che faccio si nutrano più di una componente estetica che di una sociale. Indago più il come che il cosa. Eppure, il mio non è affatto amore per la forma estetica fine a sé stessa. Credo solo che nella vita il come contenga il cosa. Anche da un punto di vista sostanziale.